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Surat Shabd Yoga
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D I S C U S S I O N E
n/a A proposito dell'Anurag Sagar


Kent Bicknell è il fondatore e il direttore della Sant Bani Ashram School, la scuola all’interno dell’ashram in New Hampshire. È stato uno degli organizzatori e dei sevadar principali nella missione di Sant Ajaib Singh Ji. Nel 2002 ha scritto un libro “Rainbow in my hearth” - “Arcobaleno nel mio cuore”, con il sottotitolo “Memorie dei primi anni della missione di Sant Ajaib Singh Ji”. In questo libro v’è un capitolo, il numero nove, dove racconta alcuni fatti molto interessanti, prima sconosciuti, sul lavoro che riguardò la pubblicazione del libro “Anurag Sagar - L’Oceano d’Amore” di Kabir Sahib; ne abbiamo tradotto alcuni stralci.


Nota: in una lettera del 6 febbraio 1979 Sant Ji aveva chiesto a Kent di rimanere una settimana in più dopo il gruppo di marzo del Rajasthan per potersi dedicare insieme con Pappu (il traduttore di Sant Ji) alla traduzione del testo; Kent parla e conosce l’hindi.


Dieci giorni a Delhi con l’Anurag Sagar
5-14 marzo 1979
Dopo che gli altri occidentali se ne furono tornati a casa, noi iniziammo con grande convinzione la traduzione (n.d.t. dal braj-hindi all’inglese) del sacro testo dell’Anurag Sagar (L’Oceano d’Amore). Il libro è un poema che utilizza il formato del dialogo per spiegare la creazione e i misteri dell’universo. A più riprese Sant Kabir risponde con pazienza alle domande del suo discepolo, Dharam Das, e rivela via via la vera natura di Dio Onnipotente con le varie trappole e inganni del Potere Negativo. Il Grande Maestro, Baba Jaimal Singh, aveva raccomandato il libro in termini elevati a Baba Sawan Singh. Il libro aiutò alla risoluzione delle numerose domande di Baba Sawan Singh, il quale, poco dopo averlo letto, prese l’iniziazione da Baba Jaimal Singh. In seguito lui disse a un devoto discepolo che senza lo studio dell’Anurag Sagar “uno non può capire appieno la differenza tra Kal (il Potere Negativo) e Dayal Mat (il sentiero del vero Dio misericordioso) né tantomeno può afferrare pienamente gli insegnamenti della Sant Mat”.
Sant Ji aveva esaminato un certo numero di vari testi e ne aveva scelto uno in particolare: un’edizione accademica compilata agli inizi del 1900 da un santo, Swami Yugalananda. La lingua del poema è proprio il dialetto di Kabir Sahib, ossia il braj - qualcosa di totalmente diverso dall’hindi moderno, una sfida da tradurre in inglese. Con l’aiuto di varie persone familiari con il braj Pappu aveva incominciato a tradurre. Ad ogni modo, era stato tradotto solo il 10-15% del testo (la versione inglese supera le duecento pagine) e si era dimostrato un lavoro assai laborioso e lento. Parlammo brevemente di una strategia, ma non vedemmo scorciatoie. Visto che eravamo appena stati ai piedi di Sant Ji e lui ci aveva concesso questo lavoro sacro, i nostri “serbatoi” erano pieni e ci buttammo a capofitto.
Quel che accadde nel corso dei seguenti nove giorni non fu nulla di simile a nessun altro periodo con Pappu e non l’avevo mai sperimentato prima (né l’ho mai più sperimentato). Ci chiudemmo in una stanza e, prima di rendercene conto, il seva stava facendo noi, piuttosto che l’incontrario. Ad ogni istante era chiaro “Chi” stava davvero facendo tutto il lavoro, e ci sentimmo come pupazzi felici, compiaciuti di farci tirare le corde ancora e ancora. Effettivamente, in principio la famiglia Bagga era preoccupata per noi, dato che non volevamo fare una pausa nemmeno per mangiare. Il lavoro procedeva e procedeva, superammo le diciotto ore al giorno. Pappu sedeva sul letto, studiava le linee del verso e io sedevo in una sedia sul tavolo, penna in mano, pronto a scrivere sulla pagina bianca del mio quaderno a spirale tutto quello che lui diceva. Di tanto in tanto ci fermavamo per discutere una sintassi particolare o come meglio renderla in inglese, ma per lo più Pappu parlava e io scrivevo, ambedue consci della presenza divina in ogni istante. Mi sentivo assai privilegiato di essere lo stenografo divino.
Dopo alcune ore cambiavamo posizione. Un colpo gentile alla porta poteva segnalare l’arrivo del chai o di un pasto - e noi sospiravamo, bevevamo, mangiavamo e ci affrettavamo di nuovo, inesplicabilmente guidati dal seva stesso. Le nostre parole in codice (che usiamo tuttora) erano: “Kya likha?” (perché lo hai scritto?) quando Pappu si rivolgeva a me e “kya bola?” (perché l’hai detto?), quando mi rivolgevo a lui.
I giorni passavano e il quaderno si riempiva. Nel frattempo annotavamo le domande che avevamo per rendere nel modo migliore qualcosa in inglese. Era il periodo dell’Holi…

Di nuovo in Rajasthan
15 marzo 1979
Quando arrivammo all’ashram, Sant Ji venne a salutarci; c’inchinammo e gli toccammo i piedi. Domandò come stesse procedendo il lavoro: “Avete avuto buon esito nei vostri sforzi?”. Gli riferimmo che con la grazia del Maestro avevamo ultimato il lavoro. Pappu spiegò che avevamo un certo numero di domande per chiarire vari punti confusi nella traduzione…
… Chris (il figlio di Kent) ed io decidemmo che era meglio andare a dormire. Pappu si era già ritirato. La stanza da pranzo serviva come dormitorio per i numerosi sevadar che erano venuti ad aiutare la costruzione dell’ashram. Chris e io entrammo silenziosamente, chiudemmo la porta dietro di noi; non appena raggiungemmo i letti, la porta si riaprì di nuovo ed entrò Sant Ji. Camminò verso di noi con una torcia in mano. Chiese dove fosse Pappu e risposi che stava dormendo. Sant Ji diresse la luce della torcia verso Pappu, poi si girò verso di me e mi domandò su quale parte del lavoro desideravamo discutere con lui. Risposi che erano domande, lui esclamò: “Quali domande?”.
Tirai fuori il libretto degli appunti per mostrargli la lista delle domande. Mi chiese quale fosse la prima. Con il mio povero hindi spiegai che riguardava una nostra confusione sulla descrizione di Kabir dei tre poteri del Satguru. “Ha!” (Sì) disse Sant Ji. “E la seconda?”, quella era pertinente alla cerimonia del chauka (la noce di cocco) e il suo significato. “E poi?”, era una domanda su come Kabir parlava di un certo turbante, ma non riuscii a chiarirlo a Sant Ji. Lui continuò indicando via via le altre domande della lista con il dito: “E questa”. Arrivammo alla domanda su tutti i vari nomi di Kabir. Spiegai a Sant Ji che a volte era “Kabir”, altre “Yog Jit” e poi era “Nan Jit” e poi “Gyani”. Chiesi se questi nomi andassero tutti bene e Sant Ji annuì con il capo e disse: “Ha, say ek hai!” (Sì, sono tutti la stessa cosa!). Dopo aver guardato ancora un po’ la lista, Sant Ji disse in inglese: “Okay” e si alzò augurando “buona notte!”…

16 marzo 1979
Di mattino Pappu ed io andammo a vedere Sant Ji. Notai immediatamente che era vestito di bianco splendente. C’inchinammo, gli toccammo i piedi e poi ci sistemammo per una lunga conversazione. All’inizio la sua barba sembrava gialla-dorata, ma poi diventò il bianco stesso. Mi fermai cercando di analizzare e incominciai a “bere”; seduto nell’Oceano d’Amore incominciammo a discutere sull’Anurag Sagar.
Sant Ji ci spiegò che gli occidentali avrebbero avuto difficoltà a capire il libro. Indicò che avremmo voluto interpretare gli eventi descritti, come i miti e le storie. La realtà era, ad ogni modo, che ogni parola del libro era vera. Ogni cosa che Kabir Sahib ha descritto a Dharam Das, era accaduta. Gli occidentali avrebbero avuto difficoltà a crederci, ma era vero.
Sant Ji disse che Baba Sawan Singh aveva intenzione di tradurre quel libro in inglese, ma non c’era riuscito perché era troppo complicato. Sawan Singh lo citò spesso e lo stimò alla grande, ma alla fine decise di rimandare la traduzione più avanti. Il Maestro Kirpal usava pure quel libro, ma anche lui notò che era troppo complesso da tradurre. Nella sua lingua originale era un testo difficile da capire anche per gli indiani moderni. Sant Ji sorrise e aggiunse: “E ora è stato fatto sotto la guida di un illetterato!”.
Esaminammo la lista delle domande. La maggior parte delle risposte di Sant Ji furono poi incorporate nelle note straordinarie, scritte da Russell Perkins, che accompagnano il testo. Ad un certo punto chiedemmo a proposito di uno dei nomi del Potere Negativo, che sembrava molto simile a una delle sacre Parole del Simran. Sant Ji spiegò in un modo molto pratico. I cinque Nomi caricati sono i Nomi dei Signori dei cinque piani interiori. Se questo fosse spiegato alle anime, allora sarebbe difficile per loro capire che stanno prestando omaggio al Signore Kal nella sua forma come Signore delle prime due regioni. Ma, Sant Ji continuò, Sat Purush porta l’anima attraverso quelle cinque regioni e la protegge. Alla fin fine l’anima raggiunge il grembo di Sat Purush, guidata da Sat Purush stesso nelle sembianze del Guru. La realtà è che nel viaggio interiore verso l’alto l’anima deve prestare omaggio al Signore in ognuno dei cinque Piani.
Sant Ji continuò a darci istruzioni molto specifiche. Con grande veemenza disse che, prima di tutto, non dovevamo cambiare nulla per conto nostro; non dovevamo dare la nostra interpretazione. Quando si presentava un termine che non capivamo, come Jambu Deep, non dovevano supporre quel che Kabir volesse intendere. Dovevamo semplicemente scrivere “Jambu Deep” esattamente com’era scritto nell’edizione che usavamo. Non sarebbe stato bene per le persone pensare che interpretavamo le cose a modo nostro.
Spiegò nuovamente che c’erano state diverse edizioni e questa era quella che aveva scelto. Dovevamo semplicemente tradurre il testo al meglio delle nostre possibilità senza riscrivere o cambiare alcun significato. Guardò alla prima parte della traduzione che era stata trascritta da qualcun altro e poi mi disse di trascriverla nella stesso modo come avevo fatto per il resto. Disse che non dovevo essere impaziente. Bisognava poi dattilografare tutto il manoscritto e mandare una copia a Pappu per ricontrollarlo, come pure a Russell per la pubblicazione.
Prima di pubblicarlo, voleva sicuramente rivedere e riesaminare ogni singolo punto. Qualora si fossero presentate altre domande sull’interpretazione, dovevamo controllarle con lui, senza usare il nostro giudizio. Alla fine mi disse di comunicare a Russell tutti i suoi commenti…
Sant Ji disse che Pappu ed io dovevamo comunicare di frequente (tutto quello di cui avevamo bisogno) affinché il lavoro dell’Anurag Sagar fosse compiuto correttamente. Con un sorriso ci diede il permesso di spedire le lettere e i pacchi. Usando una vecchia battuta ci ringraziò per il nostro “buon kitta” (buon lavoro); noi c’inchinammo e lasciammo la sua presenza…


Dall’introduzione di Russell Perkins al libro di Kent Bicknell

Riguardo all’Anurag Sagar, la mia esperienza con quel grande libro ebbe inizio quando Pappu e Kent smisero, ma il punto di Kent, ossia che gli pareva che il seva stesse facendo loro, fu di sicuro anche la mia esperienza. Sant Ji mi consegnò il manoscritto tradotto, frutto del lavoro che Kent descrive così vividamente nel nono capitolo, il primissimo giorno della nostra permanenza a Quito, Ecuador (il primo giorno della parte sudamericana del giro del 1980) e mi disse che avrei avuto molto tempo per lavorarci sopra, giacché non parlavo spagnolo e avrei avuto poco da fare in Sud America. Disse che avrei dovuto pubblicare il manoscritto con grande attenzione dal punto di vista della lingua inglese, annotare tutti i punti che un lettore occidentale avrebbe fatto fatica a capire e scrivere una nota esplicativa su quel punto. Aggiunse che avrei potuto consultarlo su quei punti difficili.
Nelle settimane seguenti ebbi molte domande e andai da lui due o tre volte alla settimana; il darshan che ricevetti nel fare questo, mi rendeva molto felice. Mi diede risposte esaurienti, che sono tutte incorporate nelle note dell’Anurag. Ma un giorno disse: “No, non puoi continuare a farmi queste domande. Sii ricettivo. Saprai le risposte; non dovrai farmi domande, non chiedermi più nulla al riguardo”. La mia prima reazione fu di tristezza, ma capii subito che aveva ragione: si presentavano un problema dopo l’altro e, ogni volta, riflettendo, scoprivo che sapevo la risposta.
Per completare il lavoro occorsero parecchi mesi, ben oltre la fine del giro del 1980; lo completai nell’agosto del 1981. Proprio alla fine c’era un quesito al quale non riuscivo a rispondere, non importa quanto meditassi su di esso, quando ricettivo cercassi di essere. Volevo scrivere e chiedere al Maestro, ma mi aveva detto di non farlo! Alfine, disperato, presi la penna e incominciai a scrivere, qualcosa, qualsiasi cosa… e nel secondo in cui la penna toccò la carta, sapevo qual era la risposta. Allora mi resi conto che avrei dovuto imparare molto tempo prima, e da allora l’ho sperimentato parecchie volte, che il Maestro non dà ordini senza dare la grazia per obbedirli. È questo che fa di questo sentiero una Realtà.


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